Etty Hillesum

La sostenibile leggerezza dell’essere

Da qualche tempo ho ripreso a leggere libri in modo continuativo. Leggo di tutto, ma mi sto interessando anche alle autobiografie, i racconti sotto forma di diario che non descrivono semplicemente i fatti temporali di un’esistenza, ma ne scavano l’anima, tirando fuori emozioni, pensieri, fissando sulla carta momenti indelebili che in qualche modo hanno segnato quella vita.

Mi ci tuffo in questi libri, per ritrovare il filo dell’essenza umana, del comun sentire. Mi immergo in queste storie e trattengo il respiro, per vedere se c’è vita oltre a quello che mi offre la Società ogni giorno, sempre più vuota, sempre più leggera, sempre più effimera.

Ho letto “Diario – 1941 – 1943”, la raccolta delle lettere scritte da Etty Hillesum, olandese di origine ebraica morta non ancora trentenne nei campi di concentramento. Con questa premessa chissà a quale tipo di libro state pensando: angosciante, triste, soffocante. Non è niente di tutto questo. Semmai angosciante e triste è la Società di oggi, in cui Etty si sarebbe trovata malissimo, ne sono convinta.

Etty Hillesum

Etty era una scrittrice, traduttrice, appassionata di scrittori come Jung e Rilke. Innamorata di un uomo molto più grande di lei, il suo psico-chirologo Julius Spier, che nel diario indica semplicemente come S. Non mi dilungo nei dettaglio biografici. Il diario è stato scritto tra il 1941 e il 1943, l’ultima pagina la scrive poco prima di prendere il treno che la porterà ad Auschwitz e da cui non farà più ritorno.

Etty trova Dio, si aggrappa a Dio, in quegli anni. Nella Fede trova il senso di tutto quello che le capita e vive lgli ultimi anni della sua vita in modo straordinario. Ho letto tante recensioni di questo libro e della vita di questa donna. E’ un esempio cui ispirarsi, senza dubbio. Ma mi ha fatto innervosire, lo ammetto. Forse sono l’unica che ha provato rabbia mentre leggeva questo libro.

In questi due anni (dal 1941 al 1943), Etty matura molto. Le pagine del libro ci rivelano una Etty giovane sognatrice, innamorata, appassionata e “leggera”, ma di quella leggerezza tipica della gioventù, a cui si perdona tutto, che annaspa per trovare la propria strada, ma si permette di concedersi tempo, perché crede di averne in abbondanza. In queste prime righe l’ombra di una morte imminente ancora non è presente

“Ora, che ogni minuto è pieno, pieno sino all’orlo di vita e di esperienza, di lotta e vittorie e cadute, ora non penso più a quel futuro, mi è indifferente se riuscirò a produrre qualcosa di straordinario oppure no, perché sono certa che ne verrà fuori qualcosa”

Mano a mano che capisce il terribile destino a cui sta andando incontro, invece che abbandonarsi all’odio, all’angoscia, al rifiuto e alla disperazione, sviluppa un attaccamento alla vita (supportato da una Fede incrollabile) assurdo. Assurdo, esattamente. E lo dico con accezione positiva.

Quando parlo di attaccamento alla vita intendo rispetto, gioia, gratitudine. Non parlo di attaccamento come rifiuto della morte e lotta per evitarla, perché Etty, gradualmente, accetta il suo destino. Accetta il destino della sua gente, accetta che i tedeschi vogliano il loro totale annientamento. Ma non si farà annientare da questo. Pregherà ogni giorno e sarà grata alla vita e a Dio per i giorni che ha potuto passare su questa terra. Etty ci dice che la vita è difficile, ma non è grave. E detto da una ragazza prossima a salire sul treno per la morte, è come un pugno nello stomaco.

“Bene. Io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Ora lo so. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se altri non capiranno cos’è in gioco per noi ebrei. Una sicurezza non sarà corrosa o indebolita dall’altra. Continuo a lavorare e a vivere con la stessa convinzione, e trovo la vita ugualmente ricca di significato”

Noi che al massimo prendiamo il treno per andare a lavorare, che ci innervosiamo se ci viene male un selfie, se non troviamo il vestito su misura o dobbiamo aspettare il nostro turno per sederci al ristorante. Noi che sbuffiamo per qualsiasi problema, che diamo importanza all’apparire piuttosto che all’essere, all’esserci. Noi che non siamo mai contenti, figuriamoci essere grati alla vita come lo era lei, che la vita la stava perdendo e ne era estremamente consapevole.

Prima ho detto che il libro mi ha fatto arrabbiare. E’ vero. C’è stato un momento in cui avrei voluto lanciare il libro contro il muro, in cui se Etty fosse stata lì, vicino a me, le avrei detto: “Ma sei scema, cosa ti è saltato in mente?” Mi ha fatto arrabbiare Etty.

Perché era così attaccata al suo destino, così volenterosa di voler condividere con la sua gente quella fine orribile, da aver rifiutato la possibilità di scappare. Poteva salvarsi. Ce l’avrebbe fatta? Chi può dirlo.

Al massimo sarebbe morta qualche mese prima del tempo. Molti sono scappati, ce l’hanno fatta e si sono rifatti una vita. Hanno scritto, lasciato testimonianze di quell’orrore. Non so come ci può sentire quando si scappa dall’Inferno o vi si sopravvive, probabilmente vivi la tua esistenza con un costante senso di colpa, ti senti un morto vivente, ti senti di aver fatto un torto a quei milioni di persone che non hanno avuto la tua stessa occasione. Forse Etty voleva evitare questo: meglio la morte piuttosto che vivere un giorno in più sapendo a cosa erano andati incontro gli altri.

Forse. Ma nelle sue pagine si legge anche speranza. Credeva che avrebbe potuto sopravvivere, e che se fosse sopravvissuta poi un giorno avrebbe raccontato questa storia.

“Mi si dice: una persona come te ha il dovere di mettersi in salvo, hai tanto da fare nella vita, hai ancora tanto da dare. Ma quel poco o molto che ho da dare, lo posso fare comunque, che sia qui in una piccola cerchia di amici, o altrove in un campo di concentramento. Se Dio decide che io abbia tanto da fare, bene, allora lo farò, dopo essere passata per tutte le esperienze per cui possono passare anche gli altri. E se non potrò sopravvivere, allora si vedrà chi sono da come morirò.”

Perché non sei scappata, Etty?

Io lo avrei fatto. Non mi vergogno a dirlo, ci avrei messo tutta me stessa, ma cosa avrei potuto perdere? La vita? Tanto l’avrei persa comunque.

Lei no. Era tosta, Etty. Prima di partire per Auschwitz aveva passato un periodo a Westerbrok, un centro di smistamento nella parte orientale del paese, da cui partivano i treni diretti ad Auschwitz. Era quasi una prova generale di quello che ti aspettava DOPO.

Ogni persona in questo centro viveva sospesa, senza voglia di vivere. Etty cercava di tenere su il morale a tutti, ma il morale non esisteva più. Quella era l’anticamera del buio, la preparazione alla Fine. Etty vagava come un pastore che cura le anime, si prodigava per intaccare gli altri con il suo senso di gratitudine e di amore per la vita, ma nessuno riusciva a vivere quell’esperienza come la viveva lei. Tutti vivevano con il terrore di essere caricati su quel maledetto treno.

“Sai – scrive Etty ad un’amica ‐ se qui tu non hai una grande forza interiore, se non guardi la parte inalienabile della tua anima, allora è proprio una situazione disperata. Nelle grandi baracche si vive come topi in una fogna. La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, allora nel mio cuore s’innalza sempre una voce elementare, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande”

Il quel centro Etty ci era finita con i genitori e il fratello Misha. Gli ultimi giorni prima di partire aveva cercato di sfruttare tutti i suoi contatti per evitare la partenza ( e allora perché non sei scappata quando potevi, Etty?) ma invano.

Non aveva solo il timore di partire, aveva il terrore di sentire la sofferenza dei suoi famigliari, magari vederli morire sotto i loro occhi. Aveva sperato fino all’ultimo di non dover partire insieme a loro. E invece il destino ha sparigliato le carte: è partita lo stesso giorno insieme ai suoi genitori. Loro nelle prime carrozze, lei nelle ultime.

Leggendo il suo libro, ho avuto la sensazione di avere di fronte un’esistenza immensa, una donna che ha cercato di elevarsi nel momento più pericoloso della sua vita, che ha cercato di dare un significato alto a cosa le stava succedendo, cercando di accettarlo. Le ultime pagine sono quasi assurde, sembra in preda all’estasi e si aggrappa alla Fede, perché è l’unica cosa che dà senso a quel tormento e lo lenisce.

Sono stata male in quelle ultime pagine, lo ammetto. Ho fatto fatica a completarle. Ecco sì, in quel momento, ho provato angoscia. Lei non la provava, in quelle righe si ripeteva che sarebbe andato tutto bene in ogni caso e che accettava il suo destino. Ero io che stavo male. Come si fa ad accettare un destino del genere?

Forse non aveva veramente idea dell’Inferno che avrebbe incontrato. Noi lo abbiamo imparato dai libri di storia e dai film, letti e visti sgranocchiando una merendina o mangiando i pop corn. Ripetendo date e numeri a memoria per prepararsi la lezione (anche i numeri dei morti, perché chiedevano anche quello alle interrogazioni), senza comprendere appieno le dimensioni di quell’apocalisse. Ancora oggi non le comprendiamo, ma dalla Storia sappiamo cosa succedeva nei campi, come morivano le persone. Forse Etty non ne era del tutto cosciente.

Sono convinta che fino all’ultimo, come lei stessa diceva, non abbia provato paura. O meglio, fino a che non ha messo piede sul treno. Una volta in carrozza, credo che la sua fede sia in parte vacillata, per poi frantumarsi una volta entrata nei Lager.

O forse no, forse fino all’ultimo ha vissuto tutto con il sorriso sulle labbra. Lo spero per lei, ma stento a crederci.

Il 7 settembre 1943, Etty, i suoi genitori e il fratello Mischa, sono stati caricati sul treno dei deportati con destinazione Auschwitz. Da un finestrino del treno ha lanciato una cartolina che, raccolta dai contadini del luogo, fu recapitata al destinatario:

“Christen, apro a caso la Bibbia e trovo: il Signore è mio rifugio. Sono seduta sul mio zaino in mezzo ad un affollato vagone merci. Abbiamo lasciato il campo cantando”

Ha lasciato il campo cantando il 7 settembre. È morta il 30 novembre, insieme al resto della sua famiglia.

Siamo essere umani fatti di paura. E non c’è niente di male a provarla, non c’è niente di male a volersi salvare. Etty ha voluto superare i limiti della natura umana, elevandosi a qualcosa che non poteva raggiungere, perché noi siamo umani, fatti per vivere, riprodurci, e lottare per la sopravvivenza.

È una recensione dal retro gusto amaro, la mia, me ne rendo conto. Non è un elogio completo alla sua vita e alla sua storia. È un elogio a metà, perché non siamo divini, nessuno lo è, perché è normale avere paura, scappare per salvarsi.

La lottatrice che è in me avrebbe voluto che Etty si salvasse perché tutti meritano la salvezza, soprattutto persone così. Etty invece si è consegnata alla morte, e questo forse l’ha resa ancora più indimenticabile nella Storia.

Etty è un esempio a cui ispirarsi. Ma nessuno ha il coraggio di ispirarsi a una vita così misericordiosa.

E, atei all’ascolto, quando parlo di misericordia ne parlo nel modo più laico possibile, la misericordia umana trascende la religione, si può provare sempre e comunque.

Questo libro, che vi invito a leggere senza merendine e popcorn, ma con una penna in mano per sottolineare le frasi più belle e prendere nota dei pensieri più profondi, mi ha fatto riflettere sulla leggerezza di noi umani di oggi. Non siamo in grado di accettare rimproveri, fallimenti, cadute. La Società si sta trasformando per crescere individui in modo sempre più semplice, limitando sfide, impegni e rimproveri, con il risultato di generare individui incapaci di lottare per quello in cui credono, figurarsi elevarsi per accettare i fallimenti o, nel caso di Etty, la morte.

Cara Etty, siamo essere leggeri, inconsistenti e insignificanti al tuo cospetto. Ci fa rabbia leggere le tue parole di accettazione e amore perché noi non siamo in grado di amare la vita come lo hai fatto tu.

Leggete il libro, se potete. Scardina tutte le vostre certezze, ridimensiona le vostre paure. E vi fa essere grati alla vita come non lo siete mai stati.

Le ultime pagine sono toste, vi avverto.

Ciao Etty, che tu possa essere di esempio a noi anime leggere e irrisolute

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Piccola nota storica, a chi potesse interessare:

Nella primavera del 1942 in Olanda, un decreto nazista obbliga gli olandesi di origine ebraica a portare la stella di David cucita sugli abiti. Iniziano le prime deportazioni di massa a Westerbork, non lontano dal confine con la Germania. Ogni lunedì arriva un treno con vagoni bestiame vuoti: nella notte, su ogni vagone, sono caricate circa 70 persone (uomini, donne e bambini).  Il martedì mattina i vagoni sono chiusi e sigillati e il treno, con il suo fischio inconfondibile, parte verso Est. Tre giorni di viaggio per arrivare ad Auschwitz.

Dei 140 mila ebrei olandesi recensiti, 105 mila sono transitati per Westerbork. Di questi, solo 3000 si sono salvati. Gli altri sono tutti morti.

3 thoughts on “La sostenibile leggerezza dell’essere

  1. Adoro il genere in questione lo trovo più veritieri e ricchi d’insegnamenti di tanti romanzi.Ultimamente mi sto interessando alle pratiche di medicina alternativa e sto leggendo questo anche se mi hai incuriosito e metterò in “lista lettura”anche questo libro.Forse il libri come questo ci danno la speranza che il grigiume di sentimenti attuale possa svanire un giorno chissa…o forse non è così visto che i sentimenti bisogna sentirli dentro e semplicemente ricordarli da una lettura.Per conto mio tutta questa superficialità dei giorni nostri mi ha portato a desiderare il vuoto piuttosto che la ricerca di sentimenti ed emozioni,come per fare ordine e ripulire prima di riempire l’anima.

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