Blue(s) Monday

Sabato scorso sono andata in un noto locale milanese ad ascoltare musica jazz. Era uno spettacolo fissato in calendario a febbraio 2020, poi spostato a maggio per l’arrivo della Bestia Incoronata e rispostato a ottobre perché a maggio era troppo presto. Ma la Besta Incoronata c’è ancora, inizia a farsi risentire e così, per timore  di non riuscire più a vedere questo spettacolo, ho gettato il cuore oltre l’ostacolo (o in questo caso sarebbe meglio dire l’ostacolo oltre il cuore?) e sono andata ad ascoltare una donna dalla voce meravigliosa. Un assaggio di normalità, mentre nell’aria già respiravo l’imminente e tanto temuta seconda ondata: tra poco si chiuderà di nuovo una fette delle attività (locali dopo la mezzanotte, forse palestre  e chi può obbligato a lavorare da casa) e ripiomberemo tutti in un Blue Monday continuo, un senso di tristezza che riusciremo difficilmente a scrollarci di dosso.

Per l’occasione, ho indossato il vestito che avevo messo per il battesimo di Alessandro, calze a rete, décolleté nere e spolverino beige.

Sembravo pronta per un matrimonio, in realtà stavo solo andando ad ascoltare musica dal vivo. Volevo godermi il momento. Senza nessun catastrofismo, perché grazie al cielo io sto bene e sta bene la mia famiglia e questa bestia fa danni seri “solo” nel 5% dei casi, ma nel restante 95% rompe le scatole a dismisura, per rimanere eufemistica, e limita la vita e il lavoro delle persone.

Sarà un autunno triste. Non catastrofico ma triste. Se le misure che ha annunciato Conte saranno adottate, non sarà mai il lockdown di marzo e aprile, ma da un certo punto di vista sarà un po’ peggio: tra marzo e aprile eravamo chiusi in casa con la speranza che prima o poi lo tsunami sarebbe passato e forse avremmo potuto tornare a vivere la vita di sempre.

Oggi sappiamo che non è così.

Che anche se non è la Peste o l’Influenza Spagnola, questa carogna con la corona limita drasticamente la vita degli individui. Distanziamento, niente baci e abbracci, volto coperto. Sarà così per molto tempo, forse anni. E non sarà un vaccino a salvarci, purtroppo. Perché la protezione immunitaria che offre un vaccino non dura nel tempo come per altre patologie. Ci vorranno forse più richiami, e non è detto che le dosi ci siano per tutti. Già fatichiamo ad avere quelle per i vaccini antinfluenzali…

Che palle, starete pensando. Mazza come è pesante questa…

Avete ragione da vendere. Mi sono criticata anche io come state facendo voi e così ho cercato di incenerire tutti questi pensieri sabato scorso. Vestita come se andassi a un matrimonio, alle 19:30 ho varcato la soglia del locale (ero la prima). Si entrava uno per volta, naturalmente. Ho preso il tavolo più bello che potessi scegliere, su un livello rialzato e a qualche metro di distanza dal palco. La sala era piena a metà rispetto al periodo pre-bestia. Tavoli ben distanziati, io e il resto del gruppo (Andrea e due nostri cari amici che posso tranquillamente definire congiunti) saremmo stati comodi. Lo spettacolo sarebbe iniziato alle 21.

 Prima avremmo cenato. Ho scelto un panino al pastrami con patatine. Il tutto innaffiato da un buon bicchiere (forse erano due?) di Primitivo del Salento.

Mi guardavo intorno. Sprazzi di normalità riempivano il mio orizzonte. Chi in gruppo, chi in coppia, tutti alzavano calici, sorridevano, cercando di trovare un senso, un momento di svago in questo piccolo inferno che stiamo tutti attraversando. Mascherine abbassate sul mento (inutili, nel senso che se non la usi è meglio metterla in una bustina di plastica pulita), cercavano tutti di godersi un seppur sobrio e breve momento di pausa, di stasi. Un questo magnifico tepore che sapeva di vino, patatine, tintinnio di posate e risate.

Che succederà tra una settimana? Sarà ancora possibile godersi tutto questo? Non lo sappiamo. Nell’attesa, brindiamo a questo presente che non può toglierci nessuno.

Arrivano le 21. Le luci in sala si affievoliscono. I riflettori che puntano il palco si accendono.

Salgono prima i musicisti: contrabbasso, percussioni, sax, tromba, pianoforte. Si chiamano Jazz Inc e sono notevoli, detto da una che non si intende di blues e jazz, ma se arriva all’orecchio una melodia piacevole la sa riconoscere.

Poi entra in scena la Voce, la newyorchese Joyce Elaine Yuille. Ci propone le sue rivisitazioni di alcune canzoni del famoso autore americano Cole Porter, che io ovviamente ignoravo. Joyce, con la sua voce e la sua personalità, riempe il palco, la sala, gli occhi. Alta, imponente, magnetica.

Non riesco a distogliere lo sguardo, gli occhi e il cuore sono tutti rivolti verso di lei. Non riesco a pensare ad altro. E la ringrazio con la mente per questo. Un’ora e mezza di blues, jazz e altre rivisitazioni di cui non so nulla ma ne apprezzo il risultato, quello che mi arriva e che mi suscita. Canzoni d’amore, storie di vita, a volte raccontate anche in modo ironico (“Too darn Hot” è notevole…) si susseguono. In un attimo la mia mente va agli anni 40’,       quando credo Porter si mise a pensare e scrivere questa canzone che poi usò per il suo musical nel 1948. Sorseggio il mio secondo calice di vino e penso: che tempi erano?

Come si viveva negli USA negli anni 40’ e 50’? In un attimo vorrei essere lì, tra cabriolet e vestitini sfarzosi e color pastello, capelli sempre in piega e ben “abboccolati”. I dieci anni dopo la Seconda guerra mondiale sono stati autentici anni di rinascita, di voglia di lusso e benessere. Voglia di riscatto.C’era la consapevolezza che il peggio fosse passato e che si poteva lavorare per fare in modo che non tornasse.

In effetti, fino ad oggi, guerre globali non ne abbiamo viste, l’Europa vive forse il suo momento storico migliore di sempre sotto questo aspetto ( a parte alcuni attacchi terroristici di matrice islamica che hanno seguito il primo, e più nefasto, del 2001 negli USA). Ma se fino a ieri a preoccuparci erano dittatori armati fino ai denti e senza scrupoli, oggi questo pericolo è affievolito ( a parte il leader nordocoreano che ogni tanto ci procura qualche tachicardia con i suoi proclami terrificanti, ma poi torna a passeggiare sul suo paziente cavallo o si assenta per qualche settimana, e tutto torna tranquillo) e al suo posto ci sono i virus. Contro i quali non siamo armati, non abbastanza. Non servono fucili, bombe nucleari, embarghi, restrizioni commerciali o tribunali internazionali. Servono cure, trattamenti, vaccini. E un nuovo, drastico modo di ripensare la socialità, la vita, il lavoro.

Il mondo globale come lo abbiamo vissuto fino a febbraio 2020 non esiste più. La terza guerra mondiale non l’ha fatta esplodere una testa calda armata fino ai denti, ma un virus. Contro cui stiamo tutti lavorando alacremente per sconfiggerlo.

Questo virus non ci ha messo gli uni contro gli altri, non ci stiamo facendo la guerra tra di noi, ma cerchiamo insieme di abbatterlo. E in questo inferno, mi sembra un dettaglio non da poco.

Ce la faremo? Certo che ce la faremo. Ma come per ogni guerra, anche questa avrà il suo prezzo in termini di vite umane, risorse impiegate e quote di nervosismo e ansia personali che raggiungeranno vette inaspettate.

Invidio chi, come Cole Porter o Joyce Elaine, riescono a chiudersi nella loro bolla artistica e a staccare da tutto e da tutti. Quando cantano o compongono sono loro soli e il mondo intorno. Vorrei trovare anche io la forza di staccare e immergermi nella mia bolla. Potrei farlo scrivendo, perché è l’unica cosa che so fare in modo decente. Credo che ritagliarsi un momento in cui esprimere se stessi, lontano da tutto e da tutti, dagli obblighi professionali e coniugali, solo con noi stessi e la nostra arte, sia salvifico.

 Ognuno di noi è un artista, anche se non lo sa. Scrivere, dipingere, comporre, fotografare, cucinare…anche fare creazioni con il pongo o con i lego. Io con i lego sono una frana da un punto di vista artistico, ma quando mi ci metto vado su un altro pianeta.

Ecco forse dovremmo imparare un po’ tutti a entrare in questa bolla, che è solo nostra, ed esternare le arti che più ci appartengono o ci affascinano e chi se ne importa se il talento è mediocre o nullo. È qualcosa che vediamo solo noi e solo noi capiamo. E’ uno sfogo artistico (che magari, con la pratica, chissà che non diventi talentuoso) che ci aiuta a superare i momenti più bui e ci regala nuova forza per affrontare il presente.

È un atto d’amore verso noi stessi.

La Bestia Incoronata ci mette ogni giorno alla prova, testa la nostra resilienza. Chi è forte dentro, chi ha radici ben profonde con il proprio essere, può superare il momento che ci apprestiamo a vivere ( e rivivere). Alleniamo il nostro spirito ad affrontare queste sfide, a guardare l’orizzonte anche se è incerto, cupo e nebuloso. Alleniamoci a vedere oltre, a credere nell’umanità e ai risultati che può raggiungere.

E mentre lo facciamo, indossiamo la mascherina, teniamoci a distanza e igienizziamo le mani.

Potevo concludere in un modo più romantico ma credo che così sia ancora più efficace, soprattutto per i resilienti che sono arrivati fino in fondo a leggere.

 

La Maga con la mascherina

2 thoughts on “Blue(s) Monday

  1. Cara Maga,

    Trovo sempre molto interessante leggere i tuoi pensieri; oggi ci scrivi di Jazz/Blues in periodo di Bestia incoronata (come la chiami tu).
    Vorrei permettermi di fare qualche paragone e mostrare qualche somiglianza per descrivere il momento che stiamo attualmente vivendo.

    Ai tempi c’erano i re, incoronati pure loro.. oggi c’è Conte che impersonifica tale figura. In fin dei conti, cosa sono i decreti-legge se non dei moderni regio-decreti? Il virus (sempre lui, poverino, ha le spalle larghe..) ha dato al “re” il potere di decidere quello che vuole, come vuole.. con l’appoggio di alcuni “scienziati” che sanno quello che é “meglio” per noi.

    L’origine del jazz ha radici nella tradizione degli schiavi.. erano i canti di lavoro degli africani deportati negli Stati Uniti e schiavizzati!

    Oggi noi “nel nome dell’emergenza sanitaria” stiamo volontariamente accettando terribili tagli alle nostre libertà personali, accettando quindi di essere a nostra volta schiavizzati.

    Ai tempi agli schiavi veniva messa “la museruola” (si, proprio come ai cani) che poco si discosta dall’attuale mascherina.. segno ben visibile dell’accettazione di tale schiavitù.

    Intendiamoci, adoro io stesso il Blues e il Jazz, tanto che per i miei 50 anni mi sono regalato un bel viaggio nella patria di questa musica, percorrendo le strade che da Memphis e Nashville portano a New Orleans assaporando le sensazioni che tali luoghi emanavano.

    Quello che vorrei parafrasare su quanto da te scritto é che forse, in fondo in fondo, quella serata di “libera uscita” ti ha dato la forza di accettare quelle ingiuste regole che sicuramente ora torneranno in vigore, privandoci di quelle libertà tanto care ai nostri genitori e nonni, i quali se le hanno ricevute é solo perché se le sono aggiudicate combattendo. Analogamente a quanto gli schiavi facevano cantando e dandosi coraggio l’un l’altro.

    Per noi é/era “normale” avere certe libertà.. oggi non abbiamo più neppure quella di scambiarci un sorriso (é nascosto dalla mascherina!) e/o un abbraccio (bisogna mantenere la distanza anti-sociale!). Torniamo indietro di 6 mesi.. chi non diceva che un sorriso migliorava la giornata di chiunque?

    Come cresceranno i nostri figli? Saranno probabilmente la prima generazione di individualisti, cinici e senza alcuna empatia perché nell’educazione sarà mancata loro tutta la fase di socializzazione..

    Insomma, secondo me stiamo avviandoci verso l’era di una nuova schiavitù, questa volta tecnocratica.
    William Henry Smyth, ingegnere statunitense, nel 1919 inventò la parola technocracy per descrivere “il ruolo delle persone reso effettivo tramite l’azione dei loro servi, gli scienziati e gli ingegneri”.

    Insomma, chi sei tu per andare contro l’autorevole decisione presa da uno scienziato? Taci e fai come dico!

    Questo mi ricorda molto la Cina che visitai nei primi anni 2000.. regime dittatoriale con amministrazione militare. É davvero tanto diverso da quello che stiamo sempre più vivendo qui da noi?

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